domenica 9 febbraio 2014

Donatella Conte - “Una voce dal Ciad” – 3° CLASSIFICATA






Donatella Conte - “Una voce dal Ciad” – 3° CLASSIFICATA 

Ce ne erano dappertutto. Ovunque, in quella casa. Sopra le pareti, attaccate al soffitto, sulla pietra del caminetto, attaccate al frigo, sulla caldaia, perfino sopra al tavolino dell'androne. Cartoline. Dappertutto, in quella vecchia casa abbandonata. L'odore della polvere impregnava ogni cosa, ogni singolo spazio era ricoperto da un tappeto di acaro. Non era possibile non notare due cose, in quella casa: le cartoline e la polvere. Forse una terza, era l'azzurro. Me lo ricordo bene. E' stata la prima cosa che ho visto, prima di incontrare lei. Un azzurro vivido, accecante, che rischia di corrodere la profondità dei colori che lo circondano. “Con quell'azzurro volerai sopra le rondini.” L'inizio della lettera, perché tale era quella cartolina, mi aveva incuriosito a tal punto che avevo dimenticato il perché della mia presenza: quella storia mi aveva catapultato in un altrove dal quale non riuscivo a separarmi. Seguitai per ore, e iniziai a capire il perché di tutte quelle cartoline, e di tanta cura nel collocarle nelle diverse stanze. Si trattava di un puzzle: la ricostruzione minuziosa di una vita intera. Probabilmente l'autore delle cartoline era stato un caro amico di mia madre. Un girovago che aveva conosciuto il mondo e voleva che la donna, inferma e fragile, potesse vivere attraverso quelle immagini avventurose. Una fotografia stavolta recava una nota particolare, come ad aggiungere un dettaglio mancante alla storia ricostruita nelle in quelle che definirei “lettere”. Non vedevo mia madre da anni, non le avevo perdonato di avermi abbandonato a pochi mesi di vita. Quando avevo saputo che era morta, la sera della vigilia di Natale, mi ero precipitato subito pensando che in questo modo non avrei avuto rivali o contestazioni nel riscuotere l'eredità. Nessun mi avrebbe tolto, per la seconda volta, ciò che mi spettava di diritto. Ed eccomi qui, la sera di Natale, in una casa abbandonata e in un paesino altrettanto desolato, a fianco alla salma di mia madre, deceduta da poche ore. Era stato un carabiniere ad avvisarmi della sua scomparsa. Al telefono avevo pianto, di nascosto da mia moglie. Non volevo si sapesse che ancora adoravo mia madre, che ogni tanto annusavo l'unico oggetto che lei aveva lasciato nella nostra vecchia casa, vicino Venezia. Una cartolina che recava il profumo di orchidee lontane raccolte in qualche sogno e, forse, di lamponi. Lei aveva avuto molti uomini e per uno di questi aveva smesso di amarmi. Almeno questo è ciò che mio padre mi aveva raccontato: a questo punto della storia, quella delle cartoline colorate ma graffiate dal tempo, poco conta che cosa provassi prima della sua morte. Fu un ticchettio, quello dell'orologio a pendolo appeso alla parete dell'ingresso ed un bussare lieve, educato, esile a richiamarmi alla realtà, al presente. La cartolina numero ventuno mi aveva messo in guardia dall'esistenza di un' “altra”. Solo quando aprii la porta la verità di quella storia raccontata con minuzia di emozioni parve limpida come quella morte inaspettata. Una ragazza alta, snella, di origini africane stava di fronte a me, sulla porta d'ingresso. I suoi occhi dicevano qualcosa che io non avevo mai udito. Una parola al momento giusto? Dice tutto. Ma vogliamo parlare di uno sguardo? Non c'è scusa che tenga. Non puoi fuggire da uno sguardo, non puoi. Non puoi fingere: sta tutto lì, in quegli occhi. Lo sguardo non parla bensì urla, emoziona, canta, spaventa, rivela la realtà e la deforma, a volte. Non esiste niente di più netto e sconvolgente del suo sguardo che, come una farfalla che vive per adagiarsi un giorno soltanto sulla vita di qualcuno, si posò elegantemente su di me. Era mia sorella. Ora capivo la necessità della fuga per salvare la piccola, che mio padre aveva deprezzato perché “negra”. La mamma l'aveva adottata senza chiedere il consenso del marito che, appresa la notizia, l'aveva disconosciuta, obbligandola a scegliere: o me, o lei. Mia madre aveva scelto di salvare la piccola Dashanti perché sapeva che io avrei ricevuto tutto l'affetto della mia famiglia. Aveva rinunciato a me. La mamma sapeva che, anche se la scelta fosse delle più crudeli, mi abbandonava sì, ma per portare in salvo una piccola vita che già sentiva come propria.
L' “altra” era una ragazza alta, dalla pelle color ebano, era nata in Ciad. Mia madre probabilmente aveva immaginato lo sgomento, lo stupore ed il mio impaccio nel comunicare con la ragazza. Per questo motivo aveva iniziato a scrivere, inscenando una storia clandestina tra lei ed uno dei suoi più teneri amanti. Solo in un punto mia madre si era tradita, lasciandomi intuire che la storia clandestina fosse un trucco per nascondere il comportamento vergognoso di mio padre. L'ossessione di quell'azzurro che dominava la casa mi suggeriva il rimando ai suoi occhi, quegli straordinari occhi blu che esprimevano una verità rimasta celata nello scrigno del passato, una voce dal Ciad.

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