Ce ne erano
dappertutto. Ovunque, in quella casa. Sopra le pareti, attaccate al soffitto,
sulla pietra del caminetto, attaccate al frigo, sulla caldaia, perfino sopra al
tavolino dell'androne. Cartoline. Dappertutto, in quella vecchia casa
abbandonata. L'odore della polvere impregnava ogni cosa, ogni singolo spazio
era ricoperto da un tappeto di acaro. Non era possibile non notare due cose, in
quella casa: le cartoline e la polvere. Forse una terza, era l'azzurro. Me lo
ricordo bene. E' stata la prima cosa che ho visto, prima di incontrare lei. Un
azzurro vivido, accecante, che rischia di corrodere la profondità dei colori
che lo circondano. “Con quell'azzurro volerai sopra le rondini.” L'inizio della
lettera, perché tale era quella cartolina, mi aveva incuriosito a tal punto che
avevo dimenticato il perché della mia presenza: quella storia mi aveva
catapultato in un altrove dal quale non riuscivo a separarmi. Seguitai per ore,
e iniziai a capire il perché di tutte quelle cartoline, e di tanta cura nel
collocarle nelle diverse stanze. Si trattava di un puzzle: la ricostruzione
minuziosa di una vita intera. Probabilmente l'autore delle cartoline era stato
un caro amico di mia madre. Un girovago che aveva conosciuto il mondo e voleva
che la donna, inferma e fragile, potesse vivere attraverso quelle immagini
avventurose. Una fotografia stavolta recava una nota particolare, come ad
aggiungere un dettaglio mancante alla storia ricostruita nelle in quelle che
definirei “lettere”. Non vedevo mia madre da anni, non le avevo perdonato di
avermi abbandonato a pochi mesi di vita. Quando avevo saputo che era morta, la
sera della vigilia di Natale, mi ero precipitato subito pensando che in questo
modo non avrei avuto rivali o contestazioni nel riscuotere l'eredità. Nessun mi
avrebbe tolto, per la seconda volta, ciò che mi spettava di diritto. Ed eccomi
qui, la sera di Natale, in una casa abbandonata e in un paesino altrettanto
desolato, a fianco alla salma di mia madre, deceduta da poche ore. Era stato un
carabiniere ad avvisarmi della sua scomparsa. Al telefono avevo pianto, di
nascosto da mia moglie. Non volevo si sapesse che ancora adoravo mia madre, che
ogni tanto annusavo l'unico oggetto che lei aveva lasciato nella nostra vecchia
casa, vicino Venezia. Una cartolina che recava il profumo di orchidee lontane
raccolte in qualche sogno e, forse, di lamponi. Lei aveva avuto molti uomini e
per uno di questi aveva smesso di amarmi. Almeno questo è ciò che mio padre mi
aveva raccontato: a questo punto della storia, quella delle cartoline colorate
ma graffiate dal tempo, poco conta che cosa provassi prima della sua morte. Fu
un ticchettio, quello dell'orologio a pendolo appeso alla parete dell'ingresso
ed un bussare lieve, educato, esile a richiamarmi alla realtà, al presente. La
cartolina numero ventuno mi aveva messo in guardia dall'esistenza di un'
“altra”. Solo quando aprii la porta la verità di quella storia raccontata con
minuzia di emozioni parve limpida come quella morte inaspettata. Una ragazza
alta, snella, di origini africane stava di fronte a me, sulla porta d'ingresso.
I suoi occhi dicevano qualcosa che io non avevo mai udito. Una parola al
momento giusto? Dice tutto. Ma vogliamo parlare di uno sguardo? Non c'è scusa
che tenga. Non puoi fuggire da uno sguardo, non puoi. Non puoi fingere: sta
tutto lì, in quegli occhi. Lo sguardo non parla bensì urla, emoziona, canta,
spaventa, rivela la realtà e la deforma, a volte. Non esiste niente di più
netto e sconvolgente del suo sguardo che, come una farfalla che vive per
adagiarsi un giorno soltanto sulla vita di qualcuno, si posò elegantemente su
di me. Era mia sorella. Ora capivo la necessità della fuga per salvare la
piccola, che mio padre aveva deprezzato perché “negra”. La mamma l'aveva
adottata senza chiedere il consenso del marito che, appresa la notizia, l'aveva
disconosciuta, obbligandola a scegliere: o me, o lei. Mia madre aveva scelto di
salvare la piccola Dashanti perché sapeva che io avrei ricevuto tutto l'affetto
della mia famiglia. Aveva rinunciato a me. La mamma sapeva che, anche se la
scelta fosse delle più crudeli, mi abbandonava sì, ma per portare in salvo una
piccola vita che già sentiva come propria.
L' “altra” era una
ragazza alta, dalla pelle color ebano, era nata in Ciad. Mia madre
probabilmente aveva immaginato lo sgomento, lo stupore ed il mio impaccio nel
comunicare con la ragazza. Per questo motivo aveva iniziato a scrivere,
inscenando una storia clandestina tra lei ed uno dei suoi più teneri amanti.
Solo in un punto mia madre si era tradita, lasciandomi intuire che la storia
clandestina fosse un trucco per nascondere il comportamento vergognoso di mio
padre. L'ossessione di quell'azzurro che dominava la casa mi suggeriva il
rimando ai suoi occhi, quegli straordinari occhi blu che esprimevano una verità
rimasta celata nello scrigno del passato, una voce dal Ciad.
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