Presentato ieri “Kramer contro Kramer”, parole di
elogio per la prima di D’Artista
giovedì 4 ottobre 2012
Presentato ieri “Kramer contro Kramer”, parole di elogio per la prima di D’Artista
martedì 2 ottobre 2012
La danza del mondo (di Jacopo Lupi)
La danza del mondo (di Jacopo Lupi)
La sveglia del cellulare cominciò
a squillare violentemente e un pensiero la svegliò: “se solo gli uomini
comprendessero appieno tutti i segreti della danza del mondo, quell’incontro
sensuale di corpi celesti che fondono le proprie anime in iperbole compiute,
forse vivrebbero meglio; forse riuscirebbero persino a definire i movimenti del
proprio corpo e ad incontrare la perfezione delle linee invisibili che la notte
disegna; cancellerebbero dalla propria mente i pensieri negativi e lascerebbero
fruire libera, come fiume senza argini, l’essenza vera che ognuno cerca di
nascondere; forse sarebbe più bello anche vivere; forse. Oppure, riuscirebbero
come sempre a rovinare tutto, anche la bellezza immobile di un cielo stellato
in silenzio.”
20:15. Mancavano ormai pochi
minuti a quel momento magico che aspettava da troppo tempo e, dentro di lei, un
sottile piacere nel sapere a cosa stava per assistere. Cominciò a liberare la
stanza di tutte le cose inutili e superflue: un libro aperto sul divano; un
bicchiere di vino quasi vuoto sul tavolo; un quaderno nero portatore sano di
tutti i segreti, anche quelli inconfessabili; qualche vestito buttato a terra
dal pomeriggio. Tutto. Andò ad aprire il balcone sperando di trovare nella strada
di fronte al mio piccolo appartamento, qualche persona da osservare mentre il
miracolo si compiva. Con gli oggetti e gli alberi lo aveva visto e osservato
una infinità di volte, ma con gli uomini no. Le era capitato solo una volta; un
bambino che giocava a palla, qualche anno prima.
Si appoggiò sul davanzale del
balcone e un leggero sorriso si impossessò delle sue labbra mentre il suo corpo
era una foglia fragile che veniva vibrata dal vento. Pini enormi che si
muovevano leggeri e imperfetti; un cielo tempestato di diamanti, mille punti
impazziti di un'unica esplosione di luce; un viale asfaltato lunghissimo dove
decine di persone camminavano veloci per trovarsi pronte, e al posto giusto,
quando tutto fosse stato realmente visibile come una poesia di immagini.
Una donna camminava su dei tacchi
a spillo che le rendevano duro e impacciato l’incedere incostante delle sue
gambe; uno sguardo basso e spalle che si piegavano impercettibilmente; le sue
mani che cercavano di sorreggersi al manico della sua borsa, come se temesse di
perderla, non ostante fosse stabilmente ancorata alla sua spalla sinistra; un
elegante tailleur baige che, anche se le dava un aspetto distinto, riusciva lo
stesso a far notare tutta l’incompletezza del suo movimento.
Aveva un viso stanco, sfibrato da
una lunga giornata di lavoro, svigorito dai finti sorrisi di cortesia
gentilmente concessi a innumerevoli estranei. Una donna in carriera che si
stava lasciando vivere per il quieto e indispensabile arrivismo quotidiano.
Centinaia di telefonate; la luce dei suoi occhi affievolita e leggera che
mostrava la necessità di conoscere in pieno chi si nascondeva da quarant’anni
dentro quel bellissimo abito griffato. Una donna. Forse anche lei una
danzatrice del cosmo.
20:20. Ancora dieci minuti. La donna
si fermò con il cellulare in mano vicino la fermata di un autobus,
probabilmente aspettava un taxi che l’avrebbe riportata di corsa nel suo
appartamento pieno di cose superflue ma vuoto di lei. Sulla panchina affianco
la fermata dell’autobus due uomini che gesticolavano vistosamente. Parlavano
mentre le loro mani si muovevano mimando gesti che servivano solo a dar forza
maggiore al pensiero che stavano cercando di trasformare in parole. Tutto
sembrava quello che era sempre stato: un disordine di immagini, forme, colori,
di cui quelle persone ne erano cornice indispensabile. La luce del lampione
sopra di loro dava un immagine più viva e mi permetteva di osservare e
concentrarmi su ogni piccolo particolare dei due uomini e della donna, che
cominciava a irrigidirsi per la lunga attesa. Il cielo era nascosto dalle luci
della città e delle macchine, che sembravano volessero entrare in competizione
con lo spettacolo celeste; un mare stellato di elettricità che faceva specchio
al fulgore dell’immensità lunare che ci stavano a guardare in silenzio.
20:25.C’eravamo quasi. Ormai
nulla le avrebbe impedito di osservare il miracolo che si compiva su quelle tre
persone. Due uomini su una panchina e una donna che attendeva un taxi. Tre
danzatori del cosmo che aspettavano di essere catturati da quel momento.
Entrò in casa, riempi il
bicchiere di vino e buttò giù di un solo colpo quel liquido caldo; rifece quell’operazione
cercando di velocizzare i movimenti per essere pronta al momento giusto. Fece
ancora una sorsata e vide l’orologio sul display del cellulare, era tutto
pronto. Si avvicinò alla finestra e appoggiò la mano sull’interruttore
dell’unica luce che aveva deciso di lasciare accesa fino a quell’istante. Il
cuore cominciò a pompare sangue con una foga mai avuta, la mano le tremava
vistosamente e i suoi occhi a tratti erano coperti di una patina leggera, come
un velo bianco che cercava di celare quello che sognavo da troppo tempo.
20:30. Spense la luce e si
avvicinò a passi lenti sul davanzale. Quando si affacciò lo spettacolo era già
iniziato. Le luci dei lampioni lentamente si stavano spegnendo; ogni finestra,
a tratti regolari, diventava buia; il rumore delle auto si attenuava ogni
secondo di più; l’angoscia che sentiva dentro da sempre si stava allontanando
sempre più, ad ogni lampione del mondo che diventava nero. Il cielo cominciò a
sorridere e preso da quel senso di protezione nei nostri confronti, rafforzò il
chiarore delle sue stelle regalandoci la più bella fiaccolata mai vista.
Sentiva la presenza di migliaia di occhi umani che, nello stesso suo momento,
stavano levando il volto verso l’alto e ammiravano estasiati quel dono immenso
che la luna stava facendo. Buio. Notte. Silenzio perfetto.
Guardò in basso, verso i due
uomini. Dopo un secondo di smarrimento avevano ripreso a parlare e gesticolare
ma, ora, stavano danzando. Vedeva le loro mani che disegnavano nell’area gesti
perfetti e linee che solo il cielo conosce; ogni loro parola generava musica
sulle quali riuscivano a muoversi ritmicamente.
La donna riprese a camminare in
quel buio, su quei tacchi a spillo che
ora erano dei trampoli altissimi su cui lei volteggiava come una
professionista; il suo sguardo si riempi di stelle, le spalle creavano un moto
ondulatorio che le davano una sinuosità che di umano aveva ben poco; nuda e
unica ballava, cercando di conoscere la sua vera essenza; il nero del mondo
attorno era un mare silenzioso su cui tre pesci nuotavano perfetti.
Una donna. Anche lei una
danzatrice del cosmo.
Si lasciò andare in quell’estasi
di immagini e suoni, tanto che anche il suo corpo sembrò catturato da quei
movimenti lenti e ovattati. La mente le cancellò tutti i pensieri negativi e
creò un infinità di altre vite possibili che il cuore cercava. Riuscì, in un
lasso di qualche minuto, a viverle tutte e innamorasi cento volte di più, e
ogni uomo ne diventava una solo, quello che lei sognava.
21:30. Le luci cominciarono a
riaccendersi, il sonno era finito. I lampioni e la vita riprese energia e il
cielo si annientò dentro il mare asfaltato e lucente di una città in movimento.
Sotto di lei due uomini che non aveva più nulla da dirsi e, poco più in là, una
donna triste che inciampava nei suoi stessi passi.
L’amore in ascensore (di Jacopo
Lupi)
Clam! Rumore sordo, tipico degli
uffici pubblici. Si aprono le porte di un ascensore davanti a due persone: una
donna molto avvenente, occhi come fari ampi nella notte che accecano d’azzurro;
e davanti ad un uomo, capelli asfaltatati, due lenti d’ingrandimento che
cercavano di mettere in risalto due occhietti minuscoli. I due si guardano una frazione di secondo. Lei,
Marla, segretaria, sorride come se le
avessero aperto la bocca con delle ganasce. Lui, Leuterio, impiegato all’ufficio
contabilità, timbratore alienato e frustrato. E’ un micro istante di pacati
cenni di intesa, poi entrano nell’ascensore. Sccc! Clam! Aleggia attorno ai due
quell’aria di imbarazzo mansueto. “Questo ascensore può trasportare fino a 320 chili!”
pensa Leuterio mentre fissa interessato la targhetta metallica che luccica. “Guarda
quanta polvere che c’è qui dentro!” pensa Marla mentre cerca di fissare lo
sguardo in un angolo remoto, dove spunta casualmente un filo appena accennato
di polvere. Magari sono amici su facebook ma lì è un altra cosa. Lì, in quella
situazione di contatto diretto e indissolubile la parola sembra venire meno e
blocca i pensieri.
2-3-4. Scorrono i numeri. Impazienza.
Accennano un ennesimo forzato sorriso. Imbarazzo. I due ruotano le pupille
tutt’intorno restando però immobili con il corpo per non invadere lo spazio
altrui. Pensieri. Finti alibi creati per non spiccicare nemmeno una parola. “Oggi
l’oroscopo sconsiglia le relazioni!” cerca di auto-convincersi Leuterio. “Si,
ma devo chiederle qualcosa prima che vada via” pensa, mentre non smette di
guardare la lamina d’acciaio che esprime in chili la portata dell’ascensore. “Potrei
chiederle se è sposata. Se ha figli. Se quella che vedo è una quarta
abbondante.” “Potrei andare su una frase da bacio perugina: due cuori che
tremano e poche parole per rendere eterno un istante! Originale!” Leuterio si
fa coraggio e si volta lentamente verso la ragazza che ora, lo fissa attendendo
qualcosa.
‹‹Ehm!›› esce fuori dalla bocca
di Leuterio come un concetto profondo. “Devo dire qualcosa, sto facendo la
figura dell’ebete!” pensa mentre si volta un micro secondo verso la lamina
d’acciaio chiedendole conforto.
‹‹Signorina, lei quanto pesa?››
‹‹ … ›› incredula.
‹‹No, chiedevo per controllare se
l’ascensore regge!››
‹‹ … ›› sconforto.
Leuterio stava provando la voglia
di morire in quell’istante, fulminato dal dio dell’amore che aveva osservato
l’abile tecnica di un don Giovanni inutile a se stesso. “Ma questo cosa vuole?”
pensa Marla fissando Leuterio.
4-5 Clam! L’ascensore di colpo si
blocca. La luce si spegne. Un filo che a fatica si muove, poi si ferma. La
campana di emergenza che comincia a suonare.
‹‹Succede spesso, devono farlo
controllare!›› dice Marla e continua ‹‹Si sente male?›› Leuterio comincia a
strabuzzare gli occhi a intervalli regolari alternati da una respirazione
indecisa.
‹‹Soffro di claustrofobia e asma
invadente!›› lo dice mentre comincia a respirare a fatica anche se l’aria non
scarseggia.
‹‹Stia tranquillo, due minuti e
ci tirano fuori!›› fa la ragazza ostentando una sicurezza totalmente in
contrasto con il respiro affannato di Leuterio. “Che figura da ebete che sto
facendo!”
‹‹Si sente meglio?›› la ragazza
posa una mano sul braccio di Leuterio che ha un sussulto che non riesce a
trattenere.
‹‹Si, ora passa›› sorride
cercando di prolungare all’infinito quel sorriso a trentadue denti per
folgorarla con quel giallo, tendente al nero, che fuoriesce dalla sua bocca
sapor caffè. Lei lo guarda, inorridita per il putridume in evidente stato di
decomposizione ma cerca di ostentare un sorriso intriso di ribrezzo. “Guarda
come mi sorride, è cotta di me!” pensa Leuterio mentre cerca parole per far
cadere ai suoi piedi quella preda così ambita tra gli animali del sua rango.
‹‹Speriamo che non ci liberino
subito!›› uscì fuori dalla bocca di Leuterio.
‹‹…›› Marla titubante e confusa,
“Ma questo è scemo o cosa?” Leuterio viaggiava con la mente mentre pensava a cosa
avrebbe potuto dirle per farla sua definitivamente: “Potrei dirle: non pensavo
proprio di incontrare in ascensore la donna della mia vita”. Poi lei si sarebbe
voltata verso di lui e gli avrebbe chiesto di essere baciata come mai in vita
sua. Bacio. Sesso. Matrimonio. Figli. Lavoro. Avrebbero fatto tutto questo insieme.
Gli anniversari da ricordare. I figli che crescono e vanno via di casa. L’amore
per una donna ancora non sua ma, ormai, era questione di attimi.
Clam! Rumore metallico. Un filo
che riprende a camminare sulla giuntura d’acciaio. La campanella che smette di
strombazzare. La luce si accende e l’ascensore riparte stranamente veloce.
5-6 Clam!Sccc! Le porte
metalliche dell’ascensore si aprono davanti ad una donna e ad un uomo che non
si guardano più in faccia. Marla fugge via. Leuterio restò lì, forse per sempre.
Il signor G. e il suo sogno (di Jacopo Lupi)
Il signor G. e il suo sogno (di Jacopo Lupi)
Aveva una casa poco fuori città.
Una vita tranquilla. Aveva studiato sempre qualcosa che non amava per far
contenti i genitori: le superiori, l’università; suo padre lo voleva laureato
in scienze politiche, come lui, del resto.
Per ora non viveva, però si stava preparando a vivere lui. Per studiare
lasciò la musica, suo padre non voleva che perdesse tempo in passatempi
inutili. Era bravo e sapeva suonare, ma abbandono. Non usciva molto di casa
perché preferiva costruire e pianificare il suo futuro: diceva che prima si
sarebbe laureato come voleva suo padre, poi avrebbe trovato un posto fisso come
il padre gli diceva, e poi, finalmente, iniziare a vivere, comprando una
chitarra nuova e diventare qualcuno. Era bravo e sapeva suonare, ma abbandono.
Preferiva sognare la notte di essere un grande cantautore, poi, addormentarsi e
risvegliarsi la mattina, alle 7.30, andare a scuola e poi casa, a pianificare
il suo futuro. Non usciva molto ma, appena finiva di studiare, prima che il
padre tornasse da lavoro, strimpellava due note alla chitarra. Era bravo e
sapeva suonare, ma il padre gli ripeteva sempre di lasciare quel passatempo
inutile. Non aveva amici perché non usciva molto, era sempre a casa a pianificare
il futuro: avrebbe prima fatto contento il padre e poi avrebbe iniziato a
vivere davvero, a vivere della sua musica. Non aveva mai avuto neppure una
ragazza. L’unica ragazza che conobbe la lasciò perché il padre diceva che non
doveva perder tempo in passatempi inutili. Un giorno la portò in riva al lago e
strimpello una serenata che aveva composto lui stesso, la ballata più dolce e
più tenera che sia stata mai scritta. Era bravo e sapeva suonare, ma abbandonò.
Quando partì per l’università la lascio perché non poteva avere passatempi
inutili. Diede via anche la chitarra, ma sapeva che un giorno l’avrebbe
ritrovata e non l’avrebbe lasciata più. Era bravo e sapeva suonare, ma
l’abbandonò. Non usciva molto perché nella città dove si trasferì non conosceva
nessuno e poi, doveva stare a casa perchè ogni tre ore il padre telefonava per
sapere se stava organizzando la sua vita futura. Per ora non viveva, però si
stava preparando a vivere lui. Era in gamba e sapeva suonare. Si laureo con il
massimo dei voti e trovò subito un lavoro che non amava. Aveva vent’otto anni e
si ritrovò nel mondo senza aver vissuto. Per ora non viveva, però si stava preparando a
vivere lui. Voleva prima trovare una casa per lui e poi finalmente cominciare a
vivere, cercare amici, una moglie e la sua chitarra. Per avere la casa che
desiderava e la macchina ideale lavorò dieci anni come un mulo. A trent’otto
anni si era stabilizzato. Una mattina si guardò allo specchio e disse una frase
che ricorderò sempre, disse: “sono pronto a vivere, da oggi cercherò una donna,
amici e la mia chitarra”. Era bravo e sapeva suonare e avrebbe sicuramente sfondato.
Quella mattina il signor G. fece
colazione alla sua solita ora, 7.30: prese del pane tostato e ci spalmò della
marmellata. Inzuppò il tutto nel latte e miele che si era riscaldato e lesse le
notizie al televideo: un altro omicidio. Uscì di casa allegro e andò sereno a
lavoro, per la prima volta stranamente tranquillo. Per ora non viveva, però si
stava preparando a vivere lui, e ora, c’era quasi. Alle 18.00 usci dal lavoro e
si diresse in un negozio di musica. Era bravo e sapeva suonare. Era lì, la sua
chitarra. La comprò e si diresse a casa.
Era buio. Poco fuori casa lo
fermò un tipo incappucciato.
“Dammi il portafoglio e la
chitarra!”
“Tieni il portafoglio ma, ti
prego, lasciami la chitarra!”
Non voleva mollare la chitarra.
Era bravo e sapeva suonare, ma l’abbandonò. Parti un colpo di pistola e la
chitarra scivolo dalle sue mani. Non l’avrebbe mai lasciata lui. Era bravo e
sapeva suonare ma, quella notte, il suo sogno svanì nel letto di un ospedale.
Non c’era nessuno attorno alla sua bara, solo suo padre che non voleva si
perdesse in inutili passatempi.
Non aveva mai vissuto e non lo fece mai, ma si preparò tutta la
vita a vivere. Non realizzò i suoi sogni perché aspettava che i sogni
realizzassero lui. Fece sempre quello che qualcuno gli diceva e non ascoltò mai
la voce del suo cuore ma cazzo, almeno lui, è morto difendendo il suo sogno!
Se sei disposto a morire per il
tuo sogno allora sogna e vivi ora, perché a volte i sogni non ti aspettano.
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