domenica 9 febbraio 2014

Tore Seduto - "La nutella nel cranio" 1° CLASSIFICATO








Tore Seduto - "La nutella nel cranio" 1° CLASSIFICATO

Un uomo si trovava in fila davanti allo sportello del bancomat. In realtà, l'uomo, era il prossimo al
servizio. Davanti a lui c'era solamente una donna che si abbandonava in chiacchiere al telefono e
perdeva tempo nell'effettuare brevi operazioni di cassa.
«No, guarda, le ho detto che non avrei mai fatto le chatouche brune perché è un colore che non mi
dona! Piuttosto, le ho detto, vorrei dei colpi di sole sparsi. Sai che se l'è presa tantissimo!? Mi ha
detto: “Mi stai dicendo che io non so fare le chatouche?”. Io non le capisco certe persone! Teso',
questo bancomat non funziona, non mi da i soldi! Aspetta, riprovo.»
L'uomo, che aspettava già da parecchi minuti e ormai conosceva tutto il glossario della parrucchiera
in erba, iniziava a spazientirsi e, dopo alcuni lunghi sospiri, decise educatamente di invitare la
donna ad accelerare i tempi di operazione.
La donna, distratta, disse: «Oh, Nenna, aspetta un secondo. C'è un tizio che mi sta parlando. Che
c'è?»
«Le dicevo: sono qua da parecchio tempo. Avrei anche fretta. Magari, se facesse aspettare la sua
amica al telefono, non me, sarebbe più semplice, anche per lei, fare quello che deve fare. La
ringrazierei tanto.»
La donna, dopo queste parole, guardò l'uomo dalla sommità della fronte fino alla punta delle scarpe.
Poi gli voltò le spalle, riprese il telefono e disse: «Niente. Mi dicevi, Nenna?»
L'uomo spalancò gli occhi. Gli si spezzò il fiato. Rimase di stucco con la carta plastificata del
bancomat in mano. Continuava a sentire la donna ciarlare al telefono.
L'uomo non era un vampiro, non era un lupo mannaro, nemmeno un zombie. Niente di simile.
Eventualmente sarebbe potuto essere un cannibale, uno con il gusto gastronomico deviato rispetto al
canone comune.
I battiti del cuore gli aumentarono vertiginosamente, mentre la donna portava avanti i suoi
pettegolezzi.
“Controlla la rabbia. Controlla la rabbia.” disse l'uomo tra sé e sé. L'intuito gli suggeriva che da un
momento all'altro i suoi nervi avrebbero ceduto, sguinzagliando istinti carnefici.
“Mantieni la calma. Mantieni la calma!”
L'uomo però, perdeva fiducia in se stesso, nonostante gli sforzi impegnati nel mantenere il proprio
autocontrollo. Le sue idee andavano confondendosi per via dell'adrenalina che, violenta, gli
impregnava le vene.
“Mantieni la rabbia! Controlla la calma! Mantieni la rabbia! Controlla la calma!” pensò l'uomo,
ormai in preda alla smania rabbiosa, avvicinandosi lentamente alla donna e puntandole contro la
tessera del bancomat.
L'uomo mise con forza la sua mano sinistra sulla spalla della donna e la fece voltare bruscamente.
Alzò in alto il braccio destro, lo riabbassò con violenza facendo passare la tessera del bancomat
contro la gola della donna. Un suono viscido, come gelatina spremuta tra le mani e acqua che cade
per terra, accompagnò il rapido gesto dell'uomo.
Il telefono cadde in terra rompendosi in mille pezzi sul marciapiede.
Gli occhi della donna erano grandi come noci, il suo sguardo era attonito. Ebbe alcuni secondi per
portarsi le mani sul collo e sporcarsi le dita col suo stesso sangue. Istintivamente cercò di tamponare
la voragine sulla sua gola. Fu un gesto vano.
Il suo corpo iniziò ad accartocciarsi sulle gambe, davanti allo sguardo cupo e rabbioso del suo
assassino, fino a cadere lungo un fianco.
La donna venne circondata pian piano dal proprio sangue.
L'uomo guardava la sua vittima perdere la vita e, silenziosamente, si chinò sulla donna. La alzò
afferrandola per i capelli. Con un gesto veloce e deciso le ruppe il cranio contro il marciapiede. Un
rumore secco firmò l'efficacia dell'azione. Con la tessera del bancomat recise la pelle della donna là
dove il suo capo venne fracassato. Allontanò tra loro i vari lembi di pelle e carne fino a vedere una
buona porzione di supercifcie bianca. Ossa rotte. L'uomo rimosse frammenti dell'osso parietale e di
quello frontale come se si stesse avviando a consumare un uovo alla coque. Sorrise quando vide il
contenuto del cranio della donna.
“Proprio come immaginavo.” pensò, poi si rimboccò la manica sinistra della camicia e infilò con
cautela la sua mano all'interno del cranio. Quando la tirò fuori, il suo viso s'illuminò in
un'espressione compiaciuta. Le sue dita erano imbrattate di Nutella. Le poggiò una ad una sulle
proprie labbra portando via con la lingua la crema di nocciole e cacao.
Passo di lì una pattuglia della polizia. I due agenti nella vettura rallentarono quando i fari della loro
auto illuminarono l'uomo accovacciato e intento a mangiare Nutella davanti al cadavere della
donna.
L'auto si fermò e i due, armati di pistola, scesero e si ripararono da un eventuale scontro a fuoco,
uno dietro l'auto e l'altro dietro la portiera aperta.
«Mani in alto! Alzati in piedi e voltati lentamente!» intimò all'uomo uno dei due poliziotti, tenendo
stretta la pistola.
L'uomo irrigidì le orecchie e s'immobilizzò. Poi, ancora ranicchiato, sì voltò verso gli agenti e disse:
«Ce n'è anche per voi!»

Emanuele Verrocchi- Marco Di Salvo -La Fine Dei Giochi - 2° CLASSIFICATO






Emanuele Verrocchi- Marco Di Salvo -La Fine Dei Giochi - 2° CLASSIFICATO

“Ciao Michè, il solito!”. Un altro inizio di anno - e ne ho passati almeno nove qui al mio Bar Tresca. Io, che non amo festeggiare il Capodanno, mi diverto il giorno dopo a scrutare solitario nei volti delle persone la stanchezza della Festa. Ogni volta ormai è mia abitudine trascorrere qui la prima giornata del nuovo anno.
Eccoli lì: Frank, Peppe, Lulù e Loffetta, di ritorno dal loro immancabile appuntamento annuale al Casinò di Venezia. Fuori è freddo, molto freddo, ma i quattro non sembrano curarsene. Vestono abiti leggeri: il gioco riscalda, tempra gli animi, rafforza il cuore. Quest’anno però c’è qualcosa di nuovo nell’aria, che emerge osservando i loro sguardi, i loro gesti. Sì, ci sono sempre, nei loro racconti ad alta voce, le prostitute di alto bordo ‘reclutate’ a fine serata, lo champagne di annata offerto dalla Direzione del Casinò (solo ai clienti abituali…), la Porsche noleggiata dal loro fidatissimo concessionario di periferia, ma qualcosa di diverso è accaduto, ed io sono lì a tentare di capire cosa.
“Hey, ricordate quel croupier, quello giovane, di sicuro l’ultimo arrivato, troppo rigido con le mani, poco veloce” - dice Peppe agli altri tre con l’aria disinvolta del giocatore consumato - “Sì, con lui siamo stati fortunati…ero tentato di giocarmi la casa in campagna della buonanima di mio nonno” - aggiunge Loffetta. “Aah…Marisol, la cameriera ai piani dell’hotel. Ogni anno più affascinante e sfuggente…Michè, un altro per favore” - continua Frank.
Lulù è silenzioso, stranamente. Lo comprendo. L’anno che si è chiuso alle spalle, per lui, è da dimenticare. La sua agenzia di scommesse andata a fuoco gli brucia ancora dentro (roba da usurai); e poi la morte della mamma, l’unica persona ‘sicura’ per lui, lo ha totalmente depresso. Quel viaggio a Venezia con i suoi amici doveva essere il riscatto, un nuovo inizio. Lulù è un ribelle, un anarchico esistenziale, quella sua somiglianza a Johnny Rotten dei Sex Pistols lo rende ai miei occhi un mito, un’icona sociale.
“Ciao Lulù” - mi avvicino a lui al bancone - “Ti offro un drink, ti va?” - Gli chiedo scimmiottando con un termine anglofono le sue velleità cosmopolite. Mi fa un cenno con la testa. “Allora, un’altra serata da leoni al Casinò vero? Raccontami…voglio da te qualche perla di verità vissuta al tavolo verde”. “Non mi va Lele, scusami!” - “Cosa c’è Lulù, hai di nuovo perso tutto quello che avevi? Muori dalla vergogna vero?”. “Finiscila giovanotto, non fare il gradasso, vieni con me”. Usciamo, io e lui, dal bar, giriamo l’angolo di un vicolo deserto; immobile, tenendomi una spalla da vecchio amico, con gli occhi lucidi (ma non per l’alcol) inizia il suo monologo.
“Vedi Lele, io sono un pokerista, tutti mi considerano un professionista; ma ho tradito la vostra stima, la vostra considerazione nei miei confronti, la reputazione che ho nella mia città, che facilmente mi intitolerebbe una strada, o anche un'umile rotatoria. L’altra notte ho provato un senso di nausea, di abbandono. Mi sono alzato dal tavolo pur avendo buone carte in mano ed un piatto invidiabile. Quelle luci, quasi psichedeliche, io quasi sessantenne; non ho resistito. Sono finito di fronte ad una slot machine, con al fianco una vecchia e sfatta signora francese che sapeva soltanto sghignazzare e fumare. Ho tirato giù la leva come se fosse uno sciacquone, come se stessi buttando nel cesso ogni reputazione, ogni principio di vita, ogni onore della lotta. Le monete che scendevano mi sembravano una voce che declamava la mia vittoria di Pirro. Ho vinto, Lele, ho vinto, ma mi vergogno come se avessi perso tutto. Non ho avuto il coraggio di dire niente agli altri. Non ho vinto con onore, ho giocato ad un gioco da bestie…ed è per questo che di nascosto ho lasciato tutti i soldi al canile. Ne avranno bisogno i miei ‘veri amici’…serviranno a riparare il tetto danneggiato dalla neve. Meglio le bestie del canile che tutti quei buzzurri ipnotizzati dalle slot!”
Lulù sa bene che nel poker non si tratta di vincere o di perdere; si tratta di prendere la decisione giusta. Ha preso la strada sbagliata. Ha vinto alle slot…e questo non se lo perdonerà mai…

KAP

Donatella Conte - “Una voce dal Ciad” – 3° CLASSIFICATA






Donatella Conte - “Una voce dal Ciad” – 3° CLASSIFICATA 

Ce ne erano dappertutto. Ovunque, in quella casa. Sopra le pareti, attaccate al soffitto, sulla pietra del caminetto, attaccate al frigo, sulla caldaia, perfino sopra al tavolino dell'androne. Cartoline. Dappertutto, in quella vecchia casa abbandonata. L'odore della polvere impregnava ogni cosa, ogni singolo spazio era ricoperto da un tappeto di acaro. Non era possibile non notare due cose, in quella casa: le cartoline e la polvere. Forse una terza, era l'azzurro. Me lo ricordo bene. E' stata la prima cosa che ho visto, prima di incontrare lei. Un azzurro vivido, accecante, che rischia di corrodere la profondità dei colori che lo circondano. “Con quell'azzurro volerai sopra le rondini.” L'inizio della lettera, perché tale era quella cartolina, mi aveva incuriosito a tal punto che avevo dimenticato il perché della mia presenza: quella storia mi aveva catapultato in un altrove dal quale non riuscivo a separarmi. Seguitai per ore, e iniziai a capire il perché di tutte quelle cartoline, e di tanta cura nel collocarle nelle diverse stanze. Si trattava di un puzzle: la ricostruzione minuziosa di una vita intera. Probabilmente l'autore delle cartoline era stato un caro amico di mia madre. Un girovago che aveva conosciuto il mondo e voleva che la donna, inferma e fragile, potesse vivere attraverso quelle immagini avventurose. Una fotografia stavolta recava una nota particolare, come ad aggiungere un dettaglio mancante alla storia ricostruita nelle in quelle che definirei “lettere”. Non vedevo mia madre da anni, non le avevo perdonato di avermi abbandonato a pochi mesi di vita. Quando avevo saputo che era morta, la sera della vigilia di Natale, mi ero precipitato subito pensando che in questo modo non avrei avuto rivali o contestazioni nel riscuotere l'eredità. Nessun mi avrebbe tolto, per la seconda volta, ciò che mi spettava di diritto. Ed eccomi qui, la sera di Natale, in una casa abbandonata e in un paesino altrettanto desolato, a fianco alla salma di mia madre, deceduta da poche ore. Era stato un carabiniere ad avvisarmi della sua scomparsa. Al telefono avevo pianto, di nascosto da mia moglie. Non volevo si sapesse che ancora adoravo mia madre, che ogni tanto annusavo l'unico oggetto che lei aveva lasciato nella nostra vecchia casa, vicino Venezia. Una cartolina che recava il profumo di orchidee lontane raccolte in qualche sogno e, forse, di lamponi. Lei aveva avuto molti uomini e per uno di questi aveva smesso di amarmi. Almeno questo è ciò che mio padre mi aveva raccontato: a questo punto della storia, quella delle cartoline colorate ma graffiate dal tempo, poco conta che cosa provassi prima della sua morte. Fu un ticchettio, quello dell'orologio a pendolo appeso alla parete dell'ingresso ed un bussare lieve, educato, esile a richiamarmi alla realtà, al presente. La cartolina numero ventuno mi aveva messo in guardia dall'esistenza di un' “altra”. Solo quando aprii la porta la verità di quella storia raccontata con minuzia di emozioni parve limpida come quella morte inaspettata. Una ragazza alta, snella, di origini africane stava di fronte a me, sulla porta d'ingresso. I suoi occhi dicevano qualcosa che io non avevo mai udito. Una parola al momento giusto? Dice tutto. Ma vogliamo parlare di uno sguardo? Non c'è scusa che tenga. Non puoi fuggire da uno sguardo, non puoi. Non puoi fingere: sta tutto lì, in quegli occhi. Lo sguardo non parla bensì urla, emoziona, canta, spaventa, rivela la realtà e la deforma, a volte. Non esiste niente di più netto e sconvolgente del suo sguardo che, come una farfalla che vive per adagiarsi un giorno soltanto sulla vita di qualcuno, si posò elegantemente su di me. Era mia sorella. Ora capivo la necessità della fuga per salvare la piccola, che mio padre aveva deprezzato perché “negra”. La mamma l'aveva adottata senza chiedere il consenso del marito che, appresa la notizia, l'aveva disconosciuta, obbligandola a scegliere: o me, o lei. Mia madre aveva scelto di salvare la piccola Dashanti perché sapeva che io avrei ricevuto tutto l'affetto della mia famiglia. Aveva rinunciato a me. La mamma sapeva che, anche se la scelta fosse delle più crudeli, mi abbandonava sì, ma per portare in salvo una piccola vita che già sentiva come propria.
L' “altra” era una ragazza alta, dalla pelle color ebano, era nata in Ciad. Mia madre probabilmente aveva immaginato lo sgomento, lo stupore ed il mio impaccio nel comunicare con la ragazza. Per questo motivo aveva iniziato a scrivere, inscenando una storia clandestina tra lei ed uno dei suoi più teneri amanti. Solo in un punto mia madre si era tradita, lasciandomi intuire che la storia clandestina fosse un trucco per nascondere il comportamento vergognoso di mio padre. L'ossessione di quell'azzurro che dominava la casa mi suggeriva il rimando ai suoi occhi, quegli straordinari occhi blu che esprimevano una verità rimasta celata nello scrigno del passato, una voce dal Ciad.

giovedì 4 ottobre 2012

Presentato ieri “Kramer contro Kramer”, parole di elogio per la prima di D’Artista



Presentato ieri “Kramer contro Kramer”, parole di elogio per la prima di D’Artista


SULMONA- E’ stato presentato ad Ancona lo spettacolo “Kramer contro Kramer” che andrà in scena questa sera al Teatro delle Muse in prima nazionale ore 21 e segna il debutto come compositore teatrale di Patrizio Maria D’Artista. CONTINUA A LEGGERE LA NOTIZIA

martedì 2 ottobre 2012

La danza del mondo (di Jacopo Lupi)

 
 
La danza del mondo (di Jacopo Lupi)
La sveglia del cellulare cominciò a squillare violentemente e un pensiero la svegliò: “se solo gli uomini comprendessero appieno tutti i segreti della danza del mondo, quell’incontro sensuale di corpi celesti che fondono le proprie anime in iperbole compiute, forse vivrebbero meglio; forse riuscirebbero persino a definire i movimenti del proprio corpo e ad incontrare la perfezione delle linee invisibili che la notte disegna; cancellerebbero dalla propria mente i pensieri negativi e lascerebbero fruire libera, come fiume senza argini, l’essenza vera che ognuno cerca di nascondere; forse sarebbe più bello anche vivere; forse. Oppure, riuscirebbero come sempre a rovinare tutto, anche la bellezza immobile di un cielo stellato in silenzio.”
20:15. Mancavano ormai pochi minuti a quel momento magico che aspettava da troppo tempo e, dentro di lei, un sottile piacere nel sapere a cosa stava per assistere. Cominciò a liberare la stanza di tutte le cose inutili e superflue: un libro aperto sul divano; un bicchiere di vino quasi vuoto sul tavolo; un quaderno nero portatore sano di tutti i segreti, anche quelli inconfessabili; qualche vestito buttato a terra dal pomeriggio. Tutto. Andò ad aprire il balcone sperando di trovare nella strada di fronte al mio piccolo appartamento, qualche persona da osservare mentre il miracolo si compiva. Con gli oggetti e gli alberi lo aveva visto e osservato una infinità di volte, ma con gli uomini no. Le era capitato solo una volta; un bambino che giocava a palla, qualche anno prima.
Si appoggiò sul davanzale del balcone e un leggero sorriso si impossessò delle sue labbra mentre il suo corpo era una foglia fragile che veniva vibrata dal vento. Pini enormi che si muovevano leggeri e imperfetti; un cielo tempestato di diamanti, mille punti impazziti di un'unica esplosione di luce; un viale asfaltato lunghissimo dove decine di persone camminavano veloci per trovarsi pronte, e al posto giusto, quando tutto fosse stato realmente visibile come una poesia di immagini.
Una donna camminava su dei tacchi a spillo che le rendevano duro e impacciato l’incedere incostante delle sue gambe; uno sguardo basso e spalle che si piegavano impercettibilmente; le sue mani che cercavano di sorreggersi al manico della sua borsa, come se temesse di perderla, non ostante fosse stabilmente ancorata alla sua spalla sinistra; un elegante tailleur baige che, anche se le dava un aspetto distinto, riusciva lo stesso a far notare tutta l’incompletezza del suo movimento.
Aveva un viso stanco, sfibrato da una lunga giornata di lavoro, svigorito dai finti sorrisi di cortesia gentilmente concessi a innumerevoli estranei. Una donna in carriera che si stava lasciando vivere per il quieto e indispensabile arrivismo quotidiano. Centinaia di telefonate; la luce dei suoi occhi affievolita e leggera che mostrava la necessità di conoscere in pieno chi si nascondeva da quarant’anni dentro quel bellissimo abito griffato. Una donna. Forse anche lei una danzatrice del cosmo.
20:20. Ancora dieci minuti. La donna si fermò con il cellulare in mano vicino la fermata di un autobus, probabilmente aspettava un taxi che l’avrebbe riportata di corsa nel suo appartamento pieno di cose superflue ma vuoto di lei. Sulla panchina affianco la fermata dell’autobus due uomini che gesticolavano vistosamente. Parlavano mentre le loro mani si muovevano mimando gesti che servivano solo a dar forza maggiore al pensiero che stavano cercando di trasformare in parole. Tutto sembrava quello che era sempre stato: un disordine di immagini, forme, colori, di cui quelle persone ne erano cornice indispensabile. La luce del lampione sopra di loro dava un immagine più viva e mi permetteva di osservare e concentrarmi su ogni piccolo particolare dei due uomini e della donna, che cominciava a irrigidirsi per la lunga attesa. Il cielo era nascosto dalle luci della città e delle macchine, che sembravano volessero entrare in competizione con lo spettacolo celeste; un mare stellato di elettricità che faceva specchio al fulgore dell’immensità lunare che ci stavano a guardare in silenzio.
20:25.C’eravamo quasi. Ormai nulla le avrebbe impedito di osservare il miracolo che si compiva su quelle tre persone. Due uomini su una panchina e una donna che attendeva un taxi. Tre danzatori del cosmo che aspettavano di essere catturati da quel momento.
Entrò in casa, riempi il bicchiere di vino e buttò giù di un solo colpo quel liquido caldo; rifece quell’operazione cercando di velocizzare i movimenti per essere pronta al momento giusto. Fece ancora una sorsata e vide l’orologio sul display del cellulare, era tutto pronto. Si avvicinò alla finestra e appoggiò la mano sull’interruttore dell’unica luce che aveva deciso di lasciare accesa fino a quell’istante. Il cuore cominciò a pompare sangue con una foga mai avuta, la mano le tremava vistosamente e i suoi occhi a tratti erano coperti di una patina leggera, come un velo bianco che cercava di celare quello che sognavo da troppo tempo.
20:30. Spense la luce e si avvicinò a passi lenti sul davanzale. Quando si affacciò lo spettacolo era già iniziato. Le luci dei lampioni lentamente si stavano spegnendo; ogni finestra, a tratti regolari, diventava buia; il rumore delle auto si attenuava ogni secondo di più; l’angoscia che sentiva dentro da sempre si stava allontanando sempre più, ad ogni lampione del mondo che diventava nero. Il cielo cominciò a sorridere e preso da quel senso di protezione nei nostri confronti, rafforzò il chiarore delle sue stelle regalandoci la più bella fiaccolata mai vista. Sentiva la presenza di migliaia di occhi umani che, nello stesso suo momento, stavano levando il volto verso l’alto e ammiravano estasiati quel dono immenso che la luna stava facendo. Buio. Notte. Silenzio perfetto.
Guardò in basso, verso i due uomini. Dopo un secondo di smarrimento avevano ripreso a parlare e gesticolare ma, ora, stavano danzando. Vedeva le loro mani che disegnavano nell’area gesti perfetti e linee che solo il cielo conosce; ogni loro parola generava musica sulle quali riuscivano a muoversi ritmicamente.
La donna riprese a camminare in quel buio, su quei  tacchi a spillo che ora erano dei trampoli altissimi su cui lei volteggiava come una professionista; il suo sguardo si riempi di stelle, le spalle creavano un moto ondulatorio che le davano una sinuosità che di umano aveva ben poco; nuda e unica ballava, cercando di conoscere la sua vera essenza; il nero del mondo attorno era un mare silenzioso su cui tre pesci nuotavano perfetti.
Una donna. Anche lei una danzatrice del cosmo.
Si lasciò andare in quell’estasi di immagini e suoni, tanto che anche il suo corpo sembrò catturato da quei movimenti lenti e ovattati. La mente le cancellò tutti i pensieri negativi e creò un infinità di altre vite possibili che il cuore cercava. Riuscì, in un lasso di qualche minuto, a viverle tutte e innamorasi cento volte di più, e ogni uomo ne diventava una solo, quello che lei sognava.
21:30. Le luci cominciarono a riaccendersi, il sonno era finito. I lampioni e la vita riprese energia e il cielo si annientò dentro il mare asfaltato e lucente di una città in movimento. Sotto di lei due uomini che non aveva più nulla da dirsi e, poco più in là, una donna triste che inciampava nei suoi stessi passi.